L'aicuteca

A mio genero

Chi ha il padre povero
è jellato. Chi ha il suocero,
povero, è scemo.

La maggior parte degli haiku qui esposti sono stati scritti da me e da mio marito. Essendo sia l'uno che l'altra rigorosamente anonimi, chiunque - anche senza citare la fonte - può far suoi detti haiku. Il guajo è che in questo blog figurano «figli di enne-enne» (cioè "esposti", appunto) anche gli haiku di autore od autrice illustre. Ad evitare violazioni di copyright, pertanto, si consiglia di non rinominare la refurtiva.

Il bello dell'haiku (meglio, del haiku; meglio ancora, dell'àicu) è nel suo alternare il quinario al settenario, versi che formano nella loro unione “il verso principe della poesia italiana”,* cioè l’endecasillabo. L’haiku, in tal modo, diventa scomponibile in un endecasillabo a minore (quinario + settenario, cioè il primo ed il secondo verso) e in un endecasillabo a majore (settenario + quinario, cioè il secondo ed il terzo verso).
Non a caso, infatti, lo si è definito «endaicusillabo».
Il bello, invece, della nostra metrica è nell’essere qualitativa, anziché quantitativa. Ad esempio, l’endecasillabo è tale non perché composto di undici sillabe, ma perché l’ultima sillaba accentata è la decima. In altre parole, “la terminologia italiana definisce la misura del verso contando sempre una sillaba in più rispetto all’ultima tonica”.**

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* MARCHESE Angelo, Dizionario di retorica e stilistica, Milano, Mondadori, 1987, p. 27.
** BELTRAMI Pietro, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 24. In proposito si pensi che Dante, oltre al consueto endecasillabo piano, propone quello tronco (“Lucifero con Giuda, ci sposò” - Inf. XXXI, 144) e quello sdrucciolo (“Ora c'en porta l'un de' duri margini" - Inf. XV, 1).

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